martedì 8 marzo 2016

LEVRES DE SANG di Francesca Lenzi







L’uomo cammina con sicurezza tra le rovine, ora nascoste nell’oscurità, ora dipinte di blu, quasi mosse da spirito vitale, attraverso la roccia nuda. Eccolo, il ponte, e lì, sugli scalini, il giocattolo. La vista improvvisa della vampira lo fa trasalire, appena prima della rapida fuga. Ovunque volga lo sguardo, o diriga la posizione, le quattro figure femminili, simili a fantasmi, sembrano anticipare ogni sua decisione.
Lèvres de sang, pellicola del 1974 di Jean Rollin, rappresenta, secondo un parere pressoché concorde, uno dei titoli migliori all’interno della filmografia del prolifico regista francese. La descrizione sopra citata ritrae probabilmente gli elementi più espliciti dell’elaborazione intellettuale di Rollin, sensibilmente affascinato dal tema del vampirismo e dalla caratterizzazione pittorica del contesto ambientale.
Sarà utile iniziare l’analisi testuale dallo studio delle componenti principali di un film: il colore, lo spazio, il sonoro.
Dal punto di vista dell’immagine, essa trova sicura corrispondenza con l’attenzione maggiore di Rollin, poco incline a perdere tempo con la stesura di una sceneggiatura coerente e verosimile, in favore dell’interesse quasi totale nei confronti dell’atmosfera da sviluppare, in termini indipendenti dalla logica, piuttosto fortemente legata alla sfera delle sensazioni. La resa visiva coincide con la rinuncia alla rielaborazione realistica, appena accennata in brevi circostanze, ma presto mortificata per lasciare ampia possibilità di espressione al clima onirico che domina il racconto.
Sono in effetti pochi i momenti riconducibili alla realtà ordinaria (il party iniziale, lo studio della fotografa, il dialogo con la madre), in ogni caso sempre compromessa da impressioni ambigue o da segnali inquietanti.
Rollin consegna al colore il compito di assecondare la propria idea di figurazione fantastica, pitturando lo schermo con scelte cromatiche affini alla memoria oggettiva, eppure modificate attraverso alterazioni ingannevoli, talvolta impercettibili. La rappresentazione delle rovine è ideale in questo senso: la pietra emerge dall’oscurità, improvvisamente, rilasciando porzioni di roccia, tinteggiate di un cobalto, tanto suggestivo, quanto irreale. E proprio il blu costituisce la tonalità che Rollin affida al sogno, dimensione inafferrabile, difficilmente distinguibile dalla verità; mentre la notte garantisce la condizione visiva affinché tale ambito allucinatorio abbia i necessari requisiti per manifestarsi.
Gli ambienti presenti nel film sostengono questa situazione, esplicitando più incisivamente il quadro illusorio attraverso gli spazi aperti. Oltre alle rovine, forse già dotate di respiro fiabesco per la configurazione strettamente connessa alla natura circostante, i contesti urbani, ipoteticamente consueti, diventano sfondo simbolico della concezione della messa in scena di Rollin. Quando il protagonista segue la misteriosa donna dal volto dipinto, le strade sono deserte, i palazzi ingrigiti e spenti non sembrano nascondere presenza umana, le rare e pallide luci dei lampioni non assolvono certo alla funzione originaria. Nella sequenza dell’aggressione da parte dell’uomo della metropolitana, lo spazio, nella propria immensità, sottolinea impietosamente il ruolo irrilevante e solitario della persona, intesa come impercettibile entità all’interno di una tela metafisica di piatte quinte teatrali.
La spiaggia, luogo che ricorre nella filmografia di Rollin, chiude sia testualmente che simbolicamente la storia. Il paesaggio livido, l’acqua di color pervinca, confondendosi con il cielo, accompagnano la bara di legno in mare aperto, accogliendo idealmente l’ammissibilità del sogno, al tempo stesso rivelato e avverabile.
Si è così investiti dalla particolarità delle immagini e delle ambientazioni che la componente sonora pare quasi trascurabile. In effetti, il suono è l’elemento più debole, meno presente, ma in modo consapevole. Rollin consegna l’azione di intervento sul pubblico alla vista, tralasciando volutamente di rimettere un peso maggiore all’acustica; questo, in ordine sempre dell’atmosfera onirica che investe il film: il sogno è fatto di forme, lineamenti, icone, mai di rumore, musica, voce.
Gli unici interventi sonori sono i dialoghi (la parte più fragile della pellicola), la musica, anche piuttosto banale che accompagna le situazioni, i rumori intradiegetici, soprattutto il vento e l’acqua.
Sarà opportuno esprimere un commento anche sulla figura del vampiro. Lèvres de sang mostra giovani donne vampire, che hanno molto poco di terrorizzante, a favore di una fisicità sensuale e inquietante. I corpi, fasciati, spesso scoperti, da evanescenti vesti, la nudità esposta, la silenziosa quanto occultata spietatezza non indicano brutalità e ferocia, bensì enigmaticità ed erotismo, a tratti persino irritante. Più interessante si rivela la decisione cosciente del protagonista e l’operazione di contagio, simbolicamente trasmesso tramite via sessuale, in termini comunque affatto carnali, ma decisamente languidi, al limite del sentimentalismo.
Le aggressioni da parte delle vampire proseguono la linea dello spiritualismo. Gli omicidi sono rapidi, le grida delle vittime appena accennate, quindi immediatamente strozzate. Gli effetti della morte non sono visibili, se non attraverso un rivolo di sangue, che fuoriesce dalla bocca o dalla ferita, quale sorta di arabesco artistico, allegoricamente associato al vampirismo. I delitti si presentano come manifestazioni speculari della concezione immateriale che sta alla base dello stesso trascendente profilo del vampiro.
Lèvres de sang è prodotto di un cinema che guarda al surrealismo come ad una dottrina alla quale riferire le proprie tendenze: sessualità, inconscio, confusione tra sogno e veglia, amore folle, sono tutti elementi che si riconoscono all’opera di Rollin, così come ad altri registi, più conosciuti e di valore senza dubbio maggiore. La memoria manipolata di Cronenberg; la desolante, inconcepibile bellezza degli scenari, e l’oscura indeterminatezza di Lynch; il colore come metafora visiva, e l’illusione inventiva di Argento, rappresentano illustri esempi che si stenta a reprimere durante la visione di Lèvres de sang, ritratto automatico, nato dal primo, essenziale, impulso di Rollin: il sogno.

sabato 5 marzo 2016

VERGINI E VAMPIRE di Michele Tosolini





 
Le viol du vampire, Viges et vampires e Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi rappresentano per Jean Rollin un trittico in cui l’autore traccia una sorta di manifesto artistico, sia dal punto di vista della forma cinematografica, sia per le caratteristiche con cui dipinge le vampire nude, protagoniste di questi tre film.
Come si è già visto una delle figure chiave della produzione cinematografica di Rollin, se non probabilmente la principale, è la vampira, alla quale il regista ha dato unimportante valenza poetica, che riassume la solitudine eterna dei non morti e l'ineluttabilità della loro condizione.1
In piena nouvelle vague Le viol du vampire, nonostante l’incomprensibilità della trama, conferisce in una cornice surrealista e dalla simbologia spesso oscura, un carattere inedito o quantomeno rivoluzionario del tema del vampirismo trattato come una malattia psicologica, tra l’altro trasmittibile. Rollin fa così dimenticare al pubblico il classico vampiro delle produzioni inglesi della Hammer, consegnandoci, con i successivi film sulle vampire nude, delle creature contaminate da un erotismo tragico morboso in cui la tristezza della solitudine e limpossibilità di mutare la propria esistenza maledetta obbliga le vampire di Rollin a nutrirsi anche dei loro stessi amanti, perdendoli per sempre.2
La saga delle vampire nude continua con il cimiteriale Viges et vampires dove l’autore mette di fronte i vampiri, creature fortemente pervase di erotismo ma in pratica sterili, con le due ragazze vergini, protagoniste della vicenda. In un atmosfera onirica che oscilla tra l’ambientazione gotica e alcune tematiche fortemente legate alla cultura hippie di moda in quegli anni. Rollin non traccia mai un confine definito tra bene e male, tra santo e profano: i vampiri sono creature ambigue, capaci di atti estremi come l’omicidio e la tortura, e le ragazze, evase da un riformatorio, appaiono tutt’altro che vergini. La prospettiva per entrambe è quella del matrimonio inteso come sacrificio di verginità e rito oscuro orgiastico, ma le due ragazze compiono scelte differenti, Michelle (Mareille Dargent) decide di unirsi ai vampiri, Marie (Marie-Pierre Castel) di perdere la propria verginità con un uomo per conservare la propria umanità.
Il tema della verginità ritorna in Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi, nel quale i morti viventi non sono zombi, ma non-morti, vampiri.
Con una trama zoppicante che ricorda vagamente Il mistero del castello (The Kiss of the Vampire, Don Sharp, 1963) della Hammer, Violenza ad una vergine narra la storia di una coppia di sposi, Lise e Antoine, che vanno a trovare dei parenti in un castello di famiglia. I due vengono accolti dalle giovani governanti, che li informano che i padroni di casa sono stati sepolti il giorno prima.
Lise decide di recarsi nel cimitero di famiglia, per omaggiare i cugini morti, qui, ancora vestita da sposa, incontra una donna completamente vestita di nero che prega sulle tombe. Con il contrasto tra le due figure femminili Rollin introduce così lo spettatore nella contrapposizione, seppur sapientemente mai ben definita, tra morte e vita, oscurità e luce, peccato e innocenza.
La sposa, di ritorno al castello, decide di non dormire con il marito e di non concedersi, rimanendo così vergine. In procinto di coricarsi, incontra, in un momento estatico ed onirico, una donna vestita vagamente hippie, Dominique, uscita dalla cassa un orologio a pendolo la segue fino al cimitero dove si sta compiendo un rito orgiastico vagamente lesbo. Rollin procede quindi per contrapposizioni, facendo preferire alla vergine Lise l’eros orgiastico al sesso istituzionale e matrimoniale.
Dominique la invita a partecipare al rito dicendole “Quelli che crediamo vivi praticano il culto della morte. Quelli che crediamo morti praticano il culto della vita.”
Il giorno seguente i due ospiti del castello apprendono che i loro cugini sono in realtà vivi. Questi si dimostrano divertiti dalle voci che li credono morti e spiegano che sono stati impegnati nello studio del culto di Iside e di un dio cornuto. Dopo una verbosa dissertazione teologica sul paganesimo, affermano che la loro famiglia è da secoli depositaria di questi saperi occulti. Rollin costruisce attraverso le loro parole una religione oscura, pagana, imperniata nella figura della Vergine Maria/dea Iside, popolata di un originalissimo pantheon di dei egizi (Anubi) e di miti pagani ebraici. I due cugini, infatti, affermano di esser stati dei cacciatori di vampiri, purtroppo sconfitti da Dominique, un vampiro errante, e vampirizzati a loro volta.
Mentre il marito Antoine, frustrato dalla castità forzata si abbandona ad un ménage à trois con le giovani governanti, Lise, frequentando Dominique acquista sempre più delle caratteristiche vampiriche come l’attrazione per il sangue e la fotosensibilità. Il processo di trasformazione sembra inevitabile per Lise che decide di accettare il dono della vita eterna attraverso il rito finale che la renderà in tutto e per tutto una vampira, ma la sera della cerimonia di iniziazione Antoine brucia le bare dei vampiri destinandoli a morte certa e sottrae loro la sua sposa, scappando.
Rollin riesce, pur con una trama ingarbugliata, a mescolare tematiche gotiche (il castello diroccato, il cimitero, il misticismo oscuro dei riti orgiastici, la presenza di personaggi misteriosi) con un espressività surrealista rimarcata da elementi psichedelici (il look di Dominique, la colonna sonora, l’erotismo non istituzionalizzato).
Violenza ad una vergine racchiude la ricetta di Rollin con cui ha costruito il suo cinema delle vampire: trama lineare ma spesso poco chiara, pochi effetti speciali sostituiti invece da una fotografia che rende le sequenze oniriche e surreali; ritmo lento, recitazione teatrale e troppo verbosa. Infine le vampire. Anche in questa pellicola tutte le donne si spogliano e tutti i personaggi vengono coinvolti in un commercio sessuale con le vampire. Addirittura i due padroni del castello, nonostante siano vampiri sotto il giogo della potente Dominique, ad un certo punto la violentano. L’unico rapporto non consumato è quello tra i due sposini, poco interessante in quanto scontato e istituzionale.





1 Fabio Giovannini, Antonio Tentori, Eros e cinema fantastico cit., p. 111.
2 Ibid.